Quando nel 2002 uscì il saggio di Massimiano Bucchi, “Scienza e società”, per le edizioni de “Il Mulino”, devo ammettere che lo trascurai.
Invece, la nuova edizione riveduta e aggiornata grazie a “Raffaello Cortina Editore” non può essere trascurata da questo mio blog che si occupa di un certo tipo di anomalie scientifiche e parascientifiche.
“Il Laboratorio delle Anomalie” è infatti attento allo studio delle modalità di scientificazione affrontate in questi ultimi decenni dalla sociologia.
Capire come una anomalia diventa fenomeno e fatto scientifico, ci aiuta a capire perché, al contrario, alcune anomalie non riescono ad attrarre l’attenzione delle collettività scientifiche.
Nel saggio di Bucchi troviamo prima di tutto un ordine storico circa lo studio sviluppato dai sociologi della scienza: come e perché la sociologia ha dovuto dedicarsi alla scienza.
In altre pagine di questo blog avevo approfondito alcune riflessioni sul concetto di anomalia come testa di ponte a ciò che la scienza considera il proprio ambito di sviluppo cognitivo e, al tempo stesso, come elemento per il posizionamento dei paletti dei propri confini.
L’anomalia è quell’evidenza incongruente delle analisi e dei risultati che per diverse ragioni lo scienziato non vuole o non riesce a integrare nel proprio spazio circoscritto di studio e, in termini più generali, l’anomalia è quell’oggetto che non riesce ad essere socializzato all’interno di un determinato collettivo scientifico.
Quindi, approfondire i modi di produzione della scienza dovrebbe essere il punto di partenza per chi si occupa di tematiche di confine, di fenomeni nuovi, “rari” o addirittura di “eventi nascosti” da identificare e/o da definire (o da ridefinire), con particolare riferimento agli oggetti di confine trattati da una “parascienza” come l’ufologia (una brutta definizione che Lagrange ci propone di modificare in pulpscience).
Ci sembra che gli ufologi e quelli scettico-razionalisti in particolare, siano restati troppo legati ad una visione irrealistica della scienza, e all’acquisizione un po’ affrettata di concetti come il falsificazionismo di Popper, senza però ulteriori approfondimenti sul mondo reale degli scienziati.
Dopo lo sviluppo dello scetticismo sugli Ufo negli anni 80, gli ufologi si sono dedicati ben poco alla comprensione della scienza, e per loro la sociologia è diventata una spiegazione del fenomeno Ufo, piuttosto che una metodologia di analisi sul come si producono conoscenza e fatti scientifici.
Più interessante sarebbe stato capire le ragioni per cui la scienza, almeno in apparenza, sembra escludere un fenomeno Ufo dal suo mondo.
Lo stesso Lagrange ha prima indicato poi approfondito questo uso errato della “sociologia” come ipotesi esplicativa degli Ufo e perciò come un ostacolo a nuovi sviluppi della disciplina ufologica da parascientifica a scientifica. L’ufologia si è così ghettizzata, asocializzata, anche e proprio in ragione di certe idee astratte riguardo all’attività della scienza, in attesa che la scienza, quella da loro immaginata, si occupasse, non si sa per quale motivo, del loro ingombrante dossier di testimonianze. Un’attesa religiosa del Messia-scienza.
Dall’altra parte l’ufologia credente, non aveva più avuto bisogno alcuno della scienza, convincendosi tra l’altro che essa fosse segretamente in complotto con i poteri politici, per nasconderci una inconfessabile evidenza extraterrestre, che avrebbe reso insensata ogni ricerca scientifica.
Siamo quindi di fronte ad due idee circa una scienza comunque mitizzata, ed irrealistica, che vanno in direzioni apparentemente diverse, simili però nel risultato finale: l’allontanamento dalla scienza.
Il saggio di Bucchi ci può quindi essere molto utile per due ragioni: avvicinarci al dibattito decennale tra sociologi sviluppato sul modo di produrre fatti scientifici e darci della scienza una idea più legata ai suoi riti piuttosto che ai suoi miti, proprio grazie all’analisi di questo dibattito avvenuto tra sociologi delle scienze.
Bucchi sviluppa il suo discorso facendo attenzione a non cadere nel facile stereotipo accusatorio che vuole la sociologia come relativista, costruttivista e antiscientista, mostrando piuttosto un vivace dibattito interno e le forti divisioni che sussistono proprio su queste argomentazioni estreme.
In effetti ben pochi sono i sostenitori del fatto che “la natura non esiste” e che “tutto è costruito dalla società”.
Entrando nel santuario della scienza, Bucchi ci spiega come certe mitologie sulle cause dello sviluppo assai rapido della scienza, durante l’ultimo secolo, non corrispondano al vero, in base ad un’analisi quantitativa dei fatti.
Bucchi fa notare come l’idea molto diffusa che l’ultimo conflitto mondiale abbia avuto un ruolo molto importante nello sviluppo dell’attività scientifica, sia già stata ampiamente ridimensionata dal sociologo Price nel 1963.
Il tasso di crescita in realtà era rimasto sostanzialmente identico agli anni precedenti alla guerra, ed in quelli immediatamente successivi.
Se una qualche conseguenza era correlata al conflitto mondiale era piuttosto quella di una leggera attenuazione della curva di crescita della ricerca scientifica.
Il tasso di crescita della scienza era piuttosto dovuto alla istituzionalizzazione della scienza e alla professionalizzazione del ruolo dello scienziato, insieme a altri macro-fenomeni quali l’industrializzazione ed lo sviluppo del capitalismo.
Bucchi ci spiega che è proprio nel dopoguerra che si sviluppa la sociologia, e che solo a partire dal 1978 la sociologia americana dedica una sezione specifica alla sociologia della scienza.
In ogni modo già il lavoro di Merton, durante gli anni 50, aveva segnalato la scarsa consapevolezza del ruolo sociale della scienza, anche in un paese come gli Stati Uniti.
Fu in quel periodo che si cominciò a considerare la scienza una occupazione come le altre.
Il limite di Merton fu però quello di presentare la scienza più per come doveva essere che per come era “realmente”.
Negli anni 70 Barnes, Dolby e altri cominciarono ad utilizzare dei “case studies” per mostrare lo scostamento tra la concezione di Merton e l’effettivo comportamento degli scienziati.
Cominciò così ad emergere il ruolo sociale svolto dagli scienziati più famosi per attirare l’attenzione dell’intero collettivo scientifico su scoperte particolarmente innovative, che altrimenti avrebbero faticato ad essere accettate.
Molto più tardi, nel 1997, si giunge alle constatazioni di Hess, sul ruolo svolto da una minoranza di ricercatori molto produttivi che era di fatto responsabile della gran parte delle pubblicazioni scientifiche.
Non potevano evidentemente mancare nelle pagine di Bucchi il riferimento alle analisi di Kuhn su scienza e rivoluzioni scientifiche, e la sua teoria che come sappiamo prevede i concetti di paradigma, scienza normale e rivoluzione.
Ricordiamo che per Kuhn la scienza non avanza attraverso un processo lineare di approssimazioni successive, ma è caratterizzata da veri e propri salti di paradigma, tant’è che il passaggio tra paradigmi corrisponde spesso ad un ricambio generazionale tra gli scienziati in attività, con la conseguenza che: “Quelle che nel mondo dello scienziato prima della rivoluzione erano anatre, appaiono dopo come conigli” (Khun 1932).
Kuhn in altre parole centra il suo ragionamento sul concetto di anomalia e sulla spiegazione dei fenomeni attraverso paradigmi, spiegazioni che possono modificarsi nel tempo o anche essere concorrenti tra loro nello stesso periodo.
Si domandava Barnes a tale proposito nel 1982: “…perché quella che per una persona è la soluzione efficace di un problema per altri è una anomalia?”. Questa situazione è valida anche nel mondo scientifico.
Bucchi ci ricorda Fleck, medico polacco di origine ebrea, nel 1935, aveva già anticipato molte delle idee di Kuhn nel suo saggio “ Genesi e sviluppo di un fatto scientifico”.
Già allora stabiliva che ciascun fatto scientifico acquista significato nell’ambito di un determinato “stile di pensiero”, dove “stile di pensiero” è un concetto usato in modo assai simile a quello di “paradigma”.
Fleck affermava che: “Il conoscere è l’attività dell’uomo sottoposta al massimo condizionamento sociale e la conoscenza è la struttura sociale per eccellenza”.
Quindi Bucchi impegna diverse pagine nell’approfondimento del “programma forte” di Bloor , sviluppato nel 1976, dove si afferma che la conoscenza scientifica dovrebbe essere: causale, imparziale, simmetrica e riflessiva.
Bloor iniziò la sua analisi mettendo in evidenza che una parte sempre più trascurabile della conoscenza scientifica proviene direttamente dai sensi. La percezione degli scienziati è sempre più mediata da complessi strumenti tecnici, e da elaborati apparati di intermediazione (pubblicazioni, apparecchiature sperimentali, mass media). Questo gli faceva concludere che non è l’esperienza o l’osservazione bruta che sta al centro dell’attività scientifica, ma l’esperienza socializzata “ripetibile, pubblica, impersonale”.
Più tardi, nel 1985, gli studi di Shapin e Shaffer sulla controversia tra Hobbes e Boyle, mostreranno in modo più chiaro che l’adozione dello “stile empirico” da parte degli scienziati del 600 altro non è che il risultato di un processo storico-sociale.
Tant’è che già Bloor affermava che anche una disciplina come la matematica non è esente da questo tipo di processo sociale, dove di conseguenza l’anomalia può convivere con la regola matematica. Un determinato teorema posto di fronte alla sopravvenienza di una anomalia può essere mantenuto con alcune restrizioni o, comunque, ritenuto valido solo a certe condizioni.
Da queste considerazioni alle conclusioni del 1979 di Latoor e Woolgar il passo è breve anche se non privo di un acceso dibattito tra sociologi.
Latour e Woolgar, come per il “programma forte, si concentrano sull’analisi di un caso, ma contemporaneo: entrano nel laboratorio.
Qui operano una osservazione di tipo etnografico sulla tribù degli scienziati.
Ne esce un saggio, “Laboratory Life”, che diviene ben presto un classico della sociologia.
“Laboratory Life” è frutto dell’analisi dei taccuini di laboratorio,dei protocolli sperimentali,delle bozze, dei resoconti, delle stesure provvisorie dei papers e infine delle conversazioni nell’ambito di un gruppo di ricerca californiano.
Si trattava tra l’altro di una attività significativa per molti versi, che avrebbe portato alla scoperta di una nuova sostanza (TRF) e al premio Nobel per lo scienziato Guillemin che dirigeva questo programma di ricerca.
Latour e Woolgar dimostrano che, anche nella ricerca di laboratorio, così come in ogni altra attività sociale, tutto è negoziabile e questa attività può essere descritta come un continuo attraversamento di “confini” tra considerazioni “scientifiche” e “non-scientifiche”.
Più tardi nel 1995 Knorr Ketina sottolineerà come un elemento importante nella definizione di un fatto scientifico è appunto rappresentato dalla “dimensione retorica”: strategie discorsive, tecniche di rappresentazione degli oggetti di studio, forme di presentazione dei dati.
Si tratta di quelle che Latour e Woolgar avevano identificato come “modalità” e “iscrizioni letterarie”.
Infatti per i due sociologi anche uno strumento scientifico non è altro che un “inscription device”: un apparecchio in grado di produrre una rappresentazione visiva.
Di conseguenza, anche il paper conclusivo per una rivista scientifica è lontano dall’essere un rapporto fedele della attività di ricerca, ed è in effetti un sottile esercizio retorico che “dimentica molto di ciò che è avvenuto in laboratorio”, e ne attua una ricostruzione selettiva.
Nel 1993, partendo da questa linea di studio, Collins ha definito un suo “manifesto programmatico” noto come “programma empirico del relativismo” che presenta tre obiettivi: 1) dimostrare che esiste una “flessibilità interpretativa” dei risultati sperimentali, in ragione della quale esiste la possibilità di più interpretazioni; 2) svolgere l’analisi dei meccanismi che portano alla chiusura di questa flessibilità, e al modo in cui giunge a conclusione una controversia scientifica; 3) collegare questi meccanismi di chiusura, alla più vasta struttura sociale.
Il consenso attorno ad una certa spiegazione scientifica, piuttosto che un'altra, può infatti essere dovuto a fattori di natura sociale: la notorietà di uno scienziato, la capacità di un certo gruppo di ricerca di imporre la propria visione (core set), o una determinata strumentazione.
Da qui l’affermazione forte di Collins: “Non è la regolarità del mondo che si impone ai nostri sensi, ma la regolarità delle nostre credenze istituzionalizzate che si impone al mondo”.
Accanto a questo modello “agonistico” di scienza descritto da Collins, si può porre, come fa Bucchi, il modello descritto alla fine degli anni 80 da Latour , Callon e altri dell’actor network theory.
Per questi studiosi la scienza ha due facce come un Giano bifronte: da un lato la scienza “bell’e fatta”, dall’altro quella “in costruzione”, la ricerca.
Se l’epistemologo analizza la prima, il sociologo tenta di approcciare la seconda.
Un enunciato o un risultato scientifico procedono verso uno stato di “fatto” (o all’opposto di artefatto) attraverso una complessa rete di attori, in un processo collettivo.
Risultato scientifico e oggetto tecnologico risultano essere delle “scatole nere”, ed il meccanismo è talmente complesso che ne può studiare solo l’output (e l’input).
Si parlerà perciò di tecnoscienza, piuttosto che di scienza tout-court, fino a mettere in discussione la possibilità di distinguere scienza e tecnologia.
Un secondo aspetto è la evidenziazione di attori umani e non-umani, i quali si comportano come alleati che concorrono al processo di trasformazione del risultato in una “scatola nera”.
L’esempio di Pasteur e della scoperta dei vaccini, che Latour propone è paradigmatico dell’actor network theory.
Queste considerazioni mettono in evidenza che siamo in presenza di “ibridi” che mescolano natura e cultura.
Ora è bene precisare che la sintesi del saggio di Bucchi può dare l’illusione di un percorso abbastanza lineare circa i progressi della sociologia della scienza, ma queste “conclusioni” sono invece frutto di un dibattito, talvolta anche aspro, che può essere ben esemplificato dall’articolo di Bloor dal titolo emblematico “Anti-Latour” (1999) e la risposta di Latour “For Bloor and Beyond – a reply to David Bloor’s “Anti-Latour””.
Nei suoi saggi Bucchi fa sempre notare come per lungo tempo la scienza sia stata vista come una “gallina dalle uova d’oro”, ovvero l’immagine della scienza come motore esclusivo dell’innovazione tecnologica.
Di conseguenza l’innovazione tecnologica non sarebbe altro che l’applicazione automatica delle scoperte scientifiche.
Questa visione, afferma Bucchi, ha avuto un ruolo storico rilevante nel determinare l’importanza del sostegno pubblico alla ricerca di base, specialmente nel dopoguerra.
Ma già a partire dagli anni 70 questo ruolo centrale della ricerca scientifica nello sviluppo tecnologico ed economico è stato messo largamente in discussione.
Bucchi mette in risalto che uno dei caratteri della scienza contemporanea è la crescente intersezione con le attività di sviluppo tecnologico, con scienziati coinvolti in campi applicativi e ingegneri attivi nel campo della ricerca.
Grazie a questa intersezione, sempre più profonda, non è più solo la scienza a stimolare la tecnologia, ma anche la tecnologia a influenzare la scienza, individuando settori ed argomenti meritevoli di ricerca scientifica, fornendo specifiche apparecchiature strumentali e infine ispirando esperimenti o osservazioni.
Questa intersezione poi non è esente da influenze di gruppi di attori sociali; in altre parole secondo Bucchi si può concludere che una tecnologia si rafforza quante più persone la utilizzano.
Attenzione però a tentare di utilizzare la società per spiegare la scienza: questo equivarrebbe ad accettare e rinforzare questa separazione, che è essa stessa un ibrido tra natura e cultura.
Era questo a ben vedere uno dei difetti del programma forte di Bloor, che non aveva portato sino in fondo il principio di simmetria che predicava.
Afferma Bucchi: “Non si può essere costruttivisti con la natura e realisti con la società, utilizzandola come una sponda per le proprie analisi della pratica scientifica”.
Bucchi ritiene che alla proliferazione di case studies e alla sempre maggiore specializzazione della sociologia non si sia affiancata una pari crescita degli aspetti teorici.
A tale scopo si rifà ad una teorizzazione abbastanza complessa di Barnes, che risale al 1983, e che a suo dire potrebbe offrire possibilità nuove negli studi di sociologia delle scienze.
Barnes individua due categorie di termini che sono il punto di partenza secondo cui definiamo il mondo che ci circonda: “termini-N” e “termini-S”.
I primi sono frutto di un processo attraverso il quale le proprietà empiriche dell’oggetto vengono confrontate con un modello (pattern-matching): rispetto a ciò che è stato detto sugli alberi si potrà ad esempio definire una certa entità come “albero”.
Nel caso opposto, i “termini-S”, non ci si basa sulle proprietà intrinseche dell’oggetto, ma sul modo con cui altre persone lo definiscono.
Contrariamente a quanto si potrebbe supporre i “termini-S” hanno un ruolo anche nell’attività scientifica: è il caso di un chimico che utilizza una bottiglia di acido cloridrico sulla base del fatto che presenta l’etichetta “acido cloridrico”, oppure quando un certo atteggiamento su un esperimento è determinato dall’”affidabilità” dello studioso, o del laboratorio presso cui opera.
Allo stesso modo ciò che conferisce a una rappresentazione lo status di modello, per esempio il modello dell’atomo come sistema solare in miniatura o quello dell’elettrone come un polo magnetico, consiste nel fatto che scienziati la utilizzano e la considerino tale.
Più gli scienziati utilizzano tali metafore, più queste diverranno forti e “date per scontate”.
Nel 1995 Bloor afferma che: “Qualcosa è un modello solo se un numero sufficiente di persone lo tratta come tale”.
Di conseguenza utilizzare un modello maggiormente diffuso o una metafora largamente condivisa, significa poter contare su una più vasta possibilità di “materiali”, “rifornimenti” e “scambi” con altri utilizzatori.
Quindi le definizioni ed i teoremi sono ampiamente negoziabili tra gli studiosi.
Nella prospettiva proposta da Bloor la dimensione sociale appare come un presupposto della conoscenza scientifica stessa.
Stati come la “dimostrazione”, il “controesempio”, che vengono ad esempio assegnati ad una serie di calcoli o ad un risultato sperimentale, come nel “modello” o nell’”esperimento” contengono elementi di tipo S.
In altre parole tutti i predicati contengono elementi di tipo S, ossia funzionano in virtù del fatto che sono istituzioni sociali.
In realtà Barnes e Bloor non tentano di espandere la componente sociale, come nel caso di Collins e dei sostenitori del “relativismo”, ma al contrario di eliminarla del tutto. La componente sociale è elemento essenziale ma ridotto al minimo.
Autori come Fleck avevano già messo in rilievo aspetti quali il fatto che il ricercatore appartiene a più collettivi di pensiero allo stesso tempo: quello del proprio settore specifico di indagine , quello della religione a cui appartiene, quello della parte politica a cui appartiene, oltre al collettivo più generale della società (e della cultura) in cui vive.
Fleck prima e Kuhn successivamente affermeranno che è proprio nello scambio e nell’intersezione di questi stili di pensiero che avvengono i più significativi mutamenti della conoscenza scientifica.
Un altro aspetto rilevante è il controllo così come viene messo in atto dai ricercatori di oggi.
Le complesse dimostrazioni matematiche o sperimentali, ad esempio riguardo le particelle della fisica, richiedono mesi di calcolo e strumentazioni disponibili solo in pochissimi e costosissimi centri di ricerca, con la conseguenza che gran parte della comunità scientifica si trova a delegare il controllo ad un numero estremamente ristretto di colleghi, rafforzando così, invece che ridurle, le influenze sociali.
Infine si deve porre una particolare attenzione alla comunicazione attraverso cui i “non addetti ai lavori” entrano in contatto con la scienza.
La comunicazione scientifica ha infatti una lunga tradizione, almeno a partire dal 700, conseguenza del crescente interesse del pubblico verso le scoperte.
Ma le pratiche della comunicazione scientifica si sono modificate nel tempo a partire da almeno due cambiamenti: la professionalizzazione dell’attività dello scienziato (aumento della rilevanza sociale, istituzionalizzazione, crescente specializzazione) e lo sviluppo dei mass-media.
Per troppo tempo siamo stati in presenza di una concezione “diffusionista” della scienza: i fatti scientifici (attraverso la metafora della traduzione linguistica) avrebbero avuto solo bisogno di essere portati dal contesto specialistico a quello divulgativo.
Questa concezione prevede una distanza tra scienziati (estranei al processo di comunicazione) e divulgazione ed una concezione lineare, pedagogica e paternalistica della comunicazione ad un pubblico tutto sommato passivo.
A partire dagli anni 90 questa rappresentazione stereotipa dell’“alfabetizzazione scientifica” è stata fortemente discussa: l’articolazione tra “sapere esperto” e “sapere non esperto” risulta ben più complessa.
Infatti i ricercatori sono sempre più coinvolti nel processo di divulgazione. Al posto di una distinzione netta tra la scienza e la sua divulgazione è stato suggerito un modello di “continuità”.
Già Fleck aveva messo in evidenza come una progressiva solidificazione del sapere, attraverso ad esempio la “scienza dei manuali”, esercitasse successivamente una influenza sugli stessi specialisti.
Infatti Bucchi fa notare come questo modello di continuità della comunicazione “ad imbuto” dia una immagine realistica solo nelle situazioni di routine.
Ma la comunicazione scientifica è anche altro, ed ha una funzione di collegamento per entrare in contatto con un ampio numero di colleghi e non solo col grande pubblico. A tale fine presenta una certa utilità soprattutto quando si tratta di attraversare più settori disciplinari per entrare in contatto con altri colleghi altrimenti non raggiungibili.
E’ stato ad esempio il caso degli scienziati che sostenevano la relazione tra CFC e l’assottigliamento dello strato di ozono, altrimenti noto come “buco nell’ozono”.
La divulgazione del “buco dell’ozono” ha fatto si che più velocemente diversi scienziati avvertissero l’urgenza del problema e si reagisse in tempi più brevi.
Spesso gli scienziati praticano questa deviazione della comunicazione, cioè la comunicazione pubblica come parte del processo di produzione di un fatto scientifico, camuffandola da divulgazione.
Secondo Bucchi è perciò necessario “uscire dalla metafora del trasferimento” per “indagare le interazioni multiple” tra discorso specialistico e discorso popolare.
Alcuni “oggetti liminali” ( i boundary objects introdotti da Star e Griesemer nel 1989) come “gene”, “DNA”, “Big Bang”, “AIDS”, trovandosi all’intersezione tra livelo specialistico e popolare, svolgono un ruolo chiave sul piano discorsivo.
In altre parole Bucchi afferma: “La creazione e la gestione di oggetti liminali è un processo chiave nello sviluppo e nel mantenimento di coerenza tra i mondi sociali che si intersecano”.
Alcuni autori oggi parlano di “co-produzione della conoscenza”, per descrivere la partecipazione dei non esperti, mentre Callon nel 1999 si spinge ad affermare che le persone comuni hanno saperi e competenze che integrano e completano quelli degli scienziati e degli specialisti.
Non è più questione dell’educazione di un pubblico scientificamente analfabeta, ma della sua partecipazione alla conoscenza.
Una delle conseguenze più eclatanti dei nuovi modi di produrre conoscenza e del comunicarla, consiste nel fatto che l’esposizione ai media delle questioni legate alla tecnoscienza, non avviene più dopo la stabilizzazione di un determinato dibattito scientifico, ma avviene nelle fasi di maggiore incertezza e controversia tra gli stessi specialisti (si pensi ad esempio al dibattito sulla “fusione fredda”).
E, sono proprio le conseguenze che Bucchi tratta nella parte finale del suo saggio delineando che si sta andando verso un nuovo modo di fare scienza, o meglio tecnoscienza, poiché se eravamo abituati in passato ad una scienza che invadeva lo spazio della società, ora sempre più spesso assistiamo alla situazione inversa: la scienza di oggi è sempre più oggetto di negoziazione con il pubblico.
Bucchi Massimiano, “Scienza e società. Introduzione alla sociologia della scienza” (Nuova edizione riveduta e aggiornata), Raffaello Cortina Editore, 2010.
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