[di Paolo Fiorino]
Un
carabiniere sta per tornare in caserma, attraversa con l’auto
l’ultimo semaforo verde, è contento della giornata. Ad un
certo punto sente un botto: bum! Inchioda, apre la portiera,
scende e vede che c’è un cinese a terra con la bocca aperta e
gli occhi chiusi. C’è un cinese in coma. Improvvisamente
incomincia ad urlare: “Aiuto! Aiuto! Chiamate l’ambulanza per
piacere… Avete visto tutti quanti che è passato con il rosso,
vero?”.
Intanto
giunge l’ambulanza, carica il cinese, lo porta al Pronto
Soccorso e da lì va a finire in rianimazione. Per sette giorni il
povero carabiniere
rimane fuori dalla rianimazione aspettando che il cinese riapra
gli occhi e racconti la verità.
La sera del settimo giorno finalmente il cinese si sveglia e apre
gli occhi. Il carabiniere se ne frega della mascherina e tutto, si
accosta al cinese e gli dice: “Ciné, ciné, dì la verità.
Di a tutti quanti che sei passato con il rosso. Ti prego. Ti
scongiuro. Altrimenti sono rovinato!”.
Il
cinese con un po’ di voce gli fa: “In cu uai i ciò”. Ma che
significa in cu uai i ciò? Qualcuno conosce il cinese? Nessuno
conosce il cinese.
“No,
ridillo bene. Dillo con calma perché non si è capito bene. Dillo
con calma”. Il cinese con voce più flebile fa: “In cu uai i
ciò”. “In cu uai i ciò? Non ti ho capito! Dillo un pochino
più lento, per favore. Dai, famme capì”. E il cinese con un
filino di voce fa: “In cu uai i ciò”. Pum! Flette la testa e
muore.
Il
carabiniere si mette le mani nei capelli: “Oddio, son rovinato!
Oddio, son rovinato! Che vorrà dire in cu uai i ciò?”
Esce
fuori dall’ospedale. Disperato si vorrebbe gettare nel fiume.
Poi a un certo punto, da lontano, vede un ristorante cinese. E
allora che fa? Imbuca dentro, si infila nelle cucine, prende il
cuoco e gli dice: “Senti un po’, che vuol dire in cu uai i
ciò?”. Allora il cuoco cinese fa: “Strana frase!”. “Strana
perché? Che vuol dire, che sono passato con il rosso?”. “Strana
frase perché significa: leva il tuo piede da tubo di mio
ossigeno”.
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Questa barzelletta – che raccontata ha ovviamente tutt’altra resa
- funge da finale a un film del 2000, “C’era una volta un
cinese”, che vede come attori Carlo Verdone e Beppe Fiorello.
Protagonista il solito povero carabiniere e una parafrasi
sulla verità, sulle risposte vere che continuamente
ricerchiamo (la “pistola fumante”). Senza accorgerci che le
abbiamo, forse, a portata di mano. Come il tubo dell’ossigeno sotto
i piedi. Calpestato e reso non funzionale. Tutti presi come siamo ad
inseguire le nostre convinzioni, i nostri desideri, le nostre ansie e
paure. Quella “realtà” che vorremmo a nostra immagine e
somiglianza. Ciò che vorremmo che fosse ma tale non è. La risposta
ci sfugge o non ci soddisfa. Perché rivolgiamo lo sguardo altrove.
Verso altro. Proiettandone i nostri assoluti, i nostri
desideri e i nostri pregiudizi. Al punto da non vedere né
capire. Limitando la nostra capacità riflessiva e di
osservazione, biasimando nel contempo l’apparente incomunicabilità,
da cui deriva l’incomprensibilità, che ci attanaglia. Tutti
proiettati verso le nostre personali attese e convinzioni. Nebbia che
ci avvolge. Anche noi spesso siamo dei poveri ufologi.
Quando ho girato su Facebook le mie riflessioni relative
all’accettazione del “vuoto/insaturo” (la “capacità
negativa”) alcuni ex ufologi compagni di cordata che si sono
fermati al campo base, in riferimento a quanto scritto hanno
commentato che pur tollerando la mancanza di senso, sono giunti a
conclusioni opposte ed hanno rinunciato a proseguire nella ricerca e
nella raccolta dei dati, ritenendoli privi di qualsivoglia
oggettività. Di fatto una rassegnazione all’inefficacia e
all’insondabilità del fenomeno UFO. Mi sovviene alla mente quanto
mi disse Igino Gatti il quale, oltre che militare della nostra
Aeronautica e uomo dei Servizi, è stato un apprezzato “ufologo”
(il “collegio invisibile” italiano dai più non conosciuto).
Rivedendo il suo passato con nostalgia e nel contempo rivivendo con
amarezza l’impotenza del suo percorso, mi invitava caldamente a
“lasciare tutto” e a “non perdere inutilmente il mio prezioso
tempo”. Così non è stato e non è.
Scrive Aldo Nove nel suo recente romanzo dedicato a San Francesco di
Assisi, “Tutta la luce del mondo” (Bompiani, 2014): “Nel
Medioevo tutto era stupendo. Nel senso che era pieno di stupore.
E c’erano i miracoli, e le cose non erano semplici cose, e l’acqua
non era acqua solamente, e il cielo era un po’ più del cielo”
(pag. 11).
Ed ancora: “Non era tutto quello che si vedeva reale, e tutto
quello che era invece invisibile a volte era più forte di qualunque
evidenza. Il Medioevo era spirituale. In ogni cosa c’era
qualcos’altro, e rimandava dritto all’universo” (pag. 13).
Stupendo… senso… miracoli… cose che non erano semplici cose…
il di più… reale… non reale… visibile e invisibile… lo
spirituale… l’evidenza… il qualcos’altro… Ognuna di queste
parole rimanda ad un’infinità di possibilità. E, nel contempo,
può farci percepire il niente. Inteso come nulla. Un nulla
inconsistente. O, meglio, il “vuoto”. O il “tutto”. Dipende
dai punti di vista. Dal nostro punto di osservazione. Faro o torre
che sia. Con il rischio di diventare dei demolitori. Degli
sfasciacarrozze. Dei credenti all’inverso ma pur sempre tali. O
degli affabulatori. Degli ingenui o superbi ignoranti pronti a dare
tutto per vero. Autentico. Reale. Perché viene meno lo
stupore (lo “stupor”) inteso come senso di grande meraviglia che
colpisce e lascia attoniti. Da non confondere con lo stupore quale
condizione in cui l’individuo appare insensibile agli stimoli e
dimostra perdita dell’orientamento con attività molto limitata. Un
po’ come il perdersi nella nebbia in montagna: solo a chi gli è
capitato può comprendere lo stato in cui ci si viene a trovare. Dove
la calma, se è il caso l’attesa, deve prevalere sull’affanno.
Unitamente all’orientamento. Che non viene da sé ma si modella e
costruisce. In questo deve consistere il progredire e il perseverare
nella conoscenza in qualsiasi ambito di ricerca. Le domande sono tali
perché abbiano una risposta. O più risposte. Tutta l’esistenza, a
mio modesto avviso, non può quindi fare a meno della “capacità
negativa”.
Mi ha fatto molto riflettere, a questo proposito, quanto Paolo
Berizzi ha scritto sul cosiddetto “giallo di Brembate” (ovvero
l’assassinio della tredicenne Yara Gamirasio) su La Repubblica
dell’11 aprile 2014. Il corpo fu ritrovato a Chignolo d’Adda (BG)
proprio nei pressi della località (Chignolo d’Isola) dove nel
1973 vi fu un (di fatto non) atterraggio UFO che tanto clamore fece
all’epoca (io ero proprio all’inizio del mio interesse per
l’argomento). Non ritenetemi blasfemo: non voglio affatto porre in
atto delle correlazioni fra i due eventi e me ne guarderei bene. Lo
spunto è un altro e mi viene dato da quanto dichiarato dall’”uomo”
(rimasto nell’anonimato) che “dà la caccia all’assassino di
Yara”. Anche lui, al momento, “ignoto”. Come l’assassino che
ormai, paradossalmente, si sa chi è ma non lo si conosce: il
probabile figlio illegittimo di tale Giuseppe Guerinoni, un autista
morto nel 1999 a 61 anni dopo avere “contribuito” con uno spruzzo
contenente qualche spermatozoo giunto all’obiettivo alla sua
nascita, come si è stabilito tramite analisi comparate del DNA
(nell’insieme i test effettuati sono stati ben 18 mila!).
Per ora il figlio è soltanto un topo di laboratorio. La scienza
ci ha portati a un punto fermo, e va bene. Ma adesso la palla torna
in mano all’uomo. E all’uomo è come se gli avessero detto:
“Guarda, cerca, trova, però devi arrangiarti senza le lenti…”.
E ora se qualcuno, anzi qualcuna, sa questa è solo la madre che oggi
dovrebbe avere teoricamente una settantina d’anni. Sempre che sia
ancora via.
Abbiamo setacciato interi paesi. Tra gli oltre 15 mila incroci
generici ne abbiamo monitorati centinaia appartenenti a donne
compatibili con la “cornice”. In tre anni e mezzo abbiamo
ricostruito vite, alberi genealogici, deviazioni cercando di non
lasciare niente al caso.
In altre parole i segugi sulle tracce di “Ignoto 1” (che a tutti
gli effetti si paventa come personaggio reale) hanno imparato
a lavorare al buio, infilato strade nel vuoto (“ogni indagine se ne
porta dietro”) e ceduto a “incastri” troppo facili. Poi un
bagliore sorge. Traccia di DNA maschile sugli slip di Yara: Gorno,
Guerinoni. La svolta è il profilo di un cliente della discoteca
“Sabbie-Mobili” di Chignolo d’Isola, 50 metri dal campo dove
viene trovato il cadavere della ragazzina. E’ la “pista di
Gorno”. La scienza dice che il nucleo famigliare di Guerinoni
(sposato e padre di due figli) non c’entra niente. Balla un figlio
illegittimo. Ora la conferma dalle provette: sì. Un figlio fuori dal
matrimonio. Fuori anche, forse, dalla consapevolezza del padre. Chi è
la mamma? Un amante? Una prostituta? E lui, il Killer, sapeva di
essere figlio di Guerinoni, o lo scopre solo adesso?
Ragiona l’uomo che partecipa alle indagini coordinate dal pm
Letizia Ruggeri: Se prima della “svolta” lavoravamo al buio
con lenti capaci di illuminare anche il più piccolo particolare,
adesso abbiamo davanti uno spiraglio di luce ma, sembra un paradosso,
è come se la cronologia ci privasse di quelle lenti. Faremo di tutto
per arrivare al Killer, ma sappiamo che l’evidenza scientifica,
visto lo scenario, rischia di non spostare un granché. Serve davvero
un colpo di fortuna.
Commenta il giornalista: “Così il mistero di Brembate torna nelle
mani dell’uomo” perché, paradossalmente, del killer si sa tutto
tranne il nome. “Prova giudiziaria” e “definitiva conferma
scientifica” inutilizzabili. Non a caso si parla di “illusione
della speranza”. E la decisione di riaprire le indagini (il cui
costo sfiora i tre milioni di euro) era stata vista come
“l’ammissione di un fallimento e un primo segno di resa” al
punto che “avevano consegnato la vicenda della ragazza di Brembate
a una dimensione quasi metafisica”. Un “lavoro perfetto”,
apparentemente “inutile”. Ovvero “un caso risolto” e
simultaneamente “irrisolto”. Sappiamo com’è l’assassino, ma
non sappiamo chi è (Il Giornale, 11 aprile 2014). I risultati
raggiunti diventano una sorta di “aggravante” che “fa sembrare
vicina la soluzione di un delitto angosciante per il vuoto che
lo circonda ma si rivela invece una illusione ottica”. E con essi
aumenta “la frustrazione di chi si sente così vicino e al tempo
stesso così lontano dalla verità”.
“Un lavoro senza precedenti e senza risultati concreti”, dice il
genetista Giorgio Portera, consulente della famiglia di Yara. Le
indagini, si sono dimostrate simili a uno sbrogliare un’enorme
matassa aggrovigliata tenendo in mano solo uno sfilacciato estremo
del filo e proseguono perché l’apparente fallimento “è uno
stimolo a riprovare, magari per fallire ancora, e poi riprovare
nuovamente. Perché è giusto così” (Corriere della Sera,
11 aprile 2014).
Tale è, a mio avviso, lo scenario della ricerca (e non
ricerca, che è tanta, anzi troppa) ufologica. E io ritengo che ogni
arresa e resa debba essere evitata. Proprio perché è giusto
così. Al di là dei mitomani, dei ciarlatani, dei
creduloni-credenti, dei cospirazionismi, dei documenti anonimi, delle
esilaranti (non) prove, della congiura del silenzio, dei patti
scellerati, della (non) realtà aliena, dell’”oltre”, delle
gole profonde, delle false piste, dell’apparente nulla di fatto,
del vacuo, delle tante speranze subito evaporate. Nonostante studi,
ricerche ed indagini inappropriate, impappinate, ingolfate, svagate e
scalcagnate. Inesorabilmente tutte queste operazioni ricordano molto
il grottesco modo di dire medico: l’intervento è perfettamente
riuscito, il paziente è morto. Lavori validi ed intriganti. Nel
contempo inconcludenti. Di qui l’inesorabile accettazione del
vuoto insaturo inteso come capacità negativa.
LO SPAZIO DEL “NON ANCORA” E LA “CAPACITA’ NEGATIVA”
Ho “scoperto” Bion casualmente leggende l’avvincente romanzo
“XY” di Sandro Veronesi (Fandango Libri, 2010).
Da quanto finora esposto ne consegue che serve ascolto (che non è
solo l’udire), tempo per comprendere, accoglienza discreta e vigile
per gli errori, in altre parole un atteggiamento di fondo connotato
da un’autentica apertura alle possibilità del non-ancora.
E’ il poeta John Keats (1795-1821), al secolo William Hilton uno
dei principali esponenti del romanticismo, che in una lettera datata
21 dicembre 1817 ai fratelli George e Thomas scrive: “Non ebbi una
disputa, ma una disquisizione su vari soggetti; parecchie cose si
sono biforcate nella mia mente e all’improvviso compresi quali
qualità vadano a formare un uomo di successo. Intendo la capacità
negativa, cioè quando un uomo sia capace di rimanere in
incertezze, misteri, dubbi, senza lasciarsi andare a un’agitata
ricerca di fatti e ragioni”.
Ora, nel nostro mondo occidentale razionale e concreto, per l’appunto
frutto del positivismo, l’idea di qualcosa di negativo, fosse
anche una capacità, è connotata subito con un’alzata di spalle
lasciando l’interlocutore esterrefatto e perplesso. A mio avviso
non si tratta tanto di un atteggiamento eccentrico e un po’
strambo, quanto di una proposta piuttosto radicale che vale la pena
di focalizzare anche nel poliedrico fenomeno qual è quello ufologico
per capire quanto il lavoro di ricerca ed analisi possa (ma forse
sarebbe meglio dire, debba) essere profondamente trasformativo. Lo
psicanalista Bion quando parla di “capacità negativa” rievoca
quanto scritto da John Keats e, riferendosi all’ascolto dei
pazienti in analisi (non a caso lavorò a lungo con psicotici gravi)
arriva addirittura a parlare di “assenza di pensiero” in modo che
le “non risposte” limitino la fuga in una relazione, nel nostro
caso con il fenomeno UFO, che nel tempo può risultare estremamente
faticosa e frustrante.
In modo analogo, seppure con sfumature differenti, in filosofia
Edmund Husserl (1859-1938) parlava di “epochè”, una forma di
sospensione del giudizio ovvero di ciò che già sappiamo, quindi il
“pre-giudizio”. Questa posizione non è volta all’affermazione
del dubbio ontologico degli scettici, bensì alla “messa in
parentesi”. In contesto fenomenologico si tratta di un
atteggiamento che mira a sospendere il giudizio sulle cose, in modo
da permettere ai fenomeni che giungono a nostra conoscenza di essere
considerati senza alcuna visione preconcetta come se li si
considerasse per la prima volta. In altre parole si tratta di
imparare a reggere una sorta di “assenza” (di conoscenza, di
chiarezza, di risposte).
Questa capacità tollera la decostruzione del già-saputo per
trovarsi di fronte al non-sapere (o non-sapere ancora nel nostro
caso) e sostarvi fino a quando spontaneamente si manifestino nuove
possibilità di senso, fino allora insospettabili. E questo apre
spazi nuovi in quanto “l’incapacità di tollerare uno spazio
vuoto limita la quantità di spazio disponibile”. La capacità
negativa dunque consente di prestare attenzione ad aspetti e a
situazioni che altrimenti resterebbero trascurati. Spesso c’è più
da indagare su ciò che viene taciuto o liquidato troppo in fretta
come già fin troppo ovvio, sulla zona che tende a restare in ombra,
nell’oscurità, su ciò che resta in forma di enigma, ancora senza
risposta.
Ed ancora: questa capacità negativa potenzia quell’agire
particolare che nasce dal “vuoto”, dalla perdita di senso e di
ordine, e proprio per questo ha la potenzialità di generare nuovi
mondi possibili. Una sorta di creatività che nasce dalla capacità
di stare produttivamente nel disordine, nella mancanza,
nell’”insaturo”.
Tra i “seven servants” del nostro cercare, individuiamo sei
servitori onesti (chi, come, quando, dove, cosa e perché) e un servo
che sospende il loro agire. Il settimo servo è appunto la “capacità
negativa”, la capacità di mantenersi nell’incertezza nonostante
le, a mio avviso supposte, certezze raggiunte. Il permanere il più a
lungo possibile in uno stato mentale insaturo e polisenso (dreamlike,
come in sogno) prima di riemergerne verso la realtà e la ragione
(Agnese Galotti, “Senza memoria e senza desiderio”,
“Individuazione”, Anno 17°, n. 61, luglio 2008).
Lo stesso cammino esplorativo sulla “capacità negativa”, da
un’altra via, stavolta sociologica e politica, lo ha compiuto
Roberto Unger, professore brasiliano che ha insegnato ad Harvard.
L’angolatura che egli sviluppa è nella direzione del costruire
schemi di un pensiero non ancorati a visioni preordinate. Il che,
praticamente, a suo avviso consiste nell’aspettare con pazienza
(non in maniera apatica o passiva) che si pervenga alla risposta
giusta, senza andare nella direzione apparentemente più ovvia o più
frequentata (qual è, in ufologia, l’ipotesi extraterrestre). Il
che vuole anche significare sottrarsi alla pressione del risultato a
tutti i costi (quale vorrebbe essere, da sempre, la cosiddetta
“ufologia strumentale”) e nel contempo schivando la paura di
sbagliare (solo chi non fa non sbaglia ma, paradossalmente, potrebbe
sbagliare nel non fare), entrambe trappole che ci spingono a
perseguire un risultato purchessia (quale per molti è la
pubblicazione di uno o più “libri”) dimenticando che la crescita
e l’apprendimento vero abitano nel processo. Nel continuo esplorare
“mondi possibili” anche se all’apparenza “non reali”.
“Si tratta di imparare a restare aperti a quello che si presenta,
mantenere una presenza mentale capace di tollerare l’assenza, il
vuoto, il non compiuto, coltivare la fiducia che l’informe contenga
la forma, sospendere il giudizio e soprattutto il pre-giudizio,
sostare nel non-sapere, fino a quando si manifestano nuove
possibilità di senso, dare attenzione a cose trascurate, alle zone
d’ombra, restare produttivamente attenti anche nel disordine,
pronti a sostenere il balzo creativo che ne nascerà” (Rosella de
Leonibus, “Adulti e ragazzi, lo spazio del ‘non ancora’”,
“Rocca”, n.22, 15 novembre 2013).
Anche nel “caos” c’è un “quid” in attesa di “essere
ordinato”.
LO “STUPOR” COME ARTE DELL’APPRENDERE
E’ stata per me una gradita sorpresa il ritrovare nel libro di
Mariano Tomatis e Ferdinando Buscema, “L’arte di stupire”
(Sperling & Kupfer, 2014, pag. 33) il riferimento alla “capacità
negativa”. Conosco ed apprezzo Mariano da diversi anni e la sua
militanza nel CICAP non ha mai obnubilato in lui la sospensione del
giudizio nonostante i risultati perseguiti e le “risposte” cui è
giunto in diverse roccaforti del cosiddetto mistero. Rifacendosi
proprio al poeta John Keats gli autori scrivono che l’uomo, per
essere pienamente autentico, deve sviluppare la “capacità
negativa”.
Ed ancora: “Esortando a un simile atteggiamento, lo scrittore
inglese non incoraggiava l’ignoranza, ma esaltava i risultati
creativi del mistero: resistere alla tentazione di trovare la scatola
giusta e di approdare subito ad una risposta, consente di esplorare
con più attenzione l’immensa rosa di soluzioni possibili,
probabili, assurde o inconcepibili, che possono rivelarsi mattoni
preziosi per creare qualcosa di novo ed originale”. E, a questo
proposito, più volte viene rimarcata l’insostituibile necessità
per l’uomo di stupirsi (lo “stupor”) e meravigliarsi (il
“meraviglioso”). Da cui nasce il “fascinoso” che da sempre
trae a se l’uomo. Tanto più se curioso ed aperto. Che ci deve
portare a evitare di fuggire al non comprensibile, a ciò che ci
sorprende, al “mistero”. Non a caso Flegonte di Tralle, un
liberto greco alla corte di Roma, nel raccontare di spettri, mostri,
cadaveri rianimati, oscure profezie scrisse un libro – purtroppo
solo in parte giunto a noi e di recente riproposto (Einaudi, 2013) –
dal titolo: “Il libro delle meraviglie”.
Jostein Gaarder, nel suo romanzo “Cosa c’è dietro le stelle?”
( Mondolibri, 1999,) narra la storia di due fratelli gemelli, Lik e
Lak, abitanti in un paese “altro” di nome Sukhavati (nel grande
Universo sulla pianura di Advaita). Questi (non) bimbi vivono la
loro storia dentro una favola (che diventa reale allo stesso
modo dei “compagni invisibili” dell’infanzia) e il loro
“viaggio” avviene in una sorta di “sfera di cristallo”.
Quando irrompono sulla Terra in un paese di nome Bergen diversi
testimoni, fra cui alcuni agenti di polizia, li vedono rientrare
nella “sfera” e scomparire con la stessa velocità con cui erano
arrivati. Le indagini portano ad escludere, non viene specificato né
il perché né il come, che si tratti di “una visita dallo spazio”
e ritengono che l’episodio abbia qualcosa a che fare con un circo
ungherese. Nel tentativo di afferrare l’inesplicabile si dice così
che la gente aveva assistito a uno spettacolo di magia di cui nessuno
era riuscito a scoprire il trucco e che forse erano stati utilizzati
raggi laser. Sebbene qualcosa di simile era successo
contemporaneamente anche a New York!
Ecco cosa scrive, nel merito, l’autore: “Qualcuno affermava che
la sfera di cristallo era un disco volante giunto a Bergen da un
altro sistema solare. Nessuno, comunque, era in grado di fornire una
spiegazione convincente di quegli strani avvenimenti.
All’inizio, la faccenda occupò tutte le prime pagine dei giornali
norvegesi e stranieri. Nei giorni immediatamente successivi
arrivarono a Bergen giornalisti e inviati televisivi da tutto il
mondo. Ma dato che non succedeva più nulla, la questione cadde
presto nel dimenticatoio. Alla fine non ne rimase più traccia,
proprio come era accaduto quando Lik e Lak erano scomparsi
improvvisamente. Una notizia è infatti qualcosa di nuovo. Non
appena comincia a diventare vecchia, perde ogni interesse e diventa
una ‘vecchizia’. E’ davvero un peccato.
Era stato uno spettacolo davvero strano (lo stupore e la meraviglia,
NdS) vedere Lik e Lak sospesi nell’aria in una sfera di cristallo a
pochi metri da terra, nel bel mezzo del corso. Ma più una cosa è
incomprensibile, più in fretta viene cancellata dalla memoria. Non
ci piace continuare a rimuginare a lungo su qualcosa che non capiamo.
Piuttosto è meglio dimenticare. Quando non si riesce a dare una
risposta a una domanda difficile, le alternative sono due: o si
rimane lì con aria ebete, oppure si gira la testa dall’altra parte
e si fa finta di non aver sentito la domanda” (pp. 138.149).
Non può essere e quindi non è. Non è mai stato.
Come più volte ho scritto in questi ultimi anni il fenomeno UFO è
degno di attenzione e rispetto anche se si hanno in mano
prevalentemente “narrazioni”.
E, con esse, nonostante il continuo e per noi deludente evolversi
delle stesse (i cari vecchi dischi volanti), lo stupore e la
meraviglia.
Domande senza risposta.
Di recente Giancarlo D’Alessandro si è occupato di un’interessante
osservazione di entità isolata (una di quelle su cui noi,
vetero-ufologi, storciamo solitamente il naso).
In breve ecco il suo “report”:
Mi sono incontrato con X., testimone dell'IR3 (?) avvenuto in una cittadina del centro Italia.
Ieri X. ha incontrato Angelo Ferlicca e Andrea Bovo, che hanno svolto sia l'intervista (con registrazione audio), sia il sopralluogo (con foto). Non ho potuto partecipare, ma X., saputi i miei trascorsi professionali, ci teneva ad incontrarmi. Ci siamo sentiti per telefono e ci siamo incontrati in un bar di Viterbo questa mattina. M. ha 52 anni ed [cut] abita in una città Adel centro Italia , è un [cut]. E' sposato ed ha due figli.
Ieri X. ha incontrato Angelo Ferlicca e Andrea Bovo, che hanno svolto sia l'intervista (con registrazione audio), sia il sopralluogo (con foto). Non ho potuto partecipare, ma X., saputi i miei trascorsi professionali, ci teneva ad incontrarmi. Ci siamo sentiti per telefono e ci siamo incontrati in un bar di Viterbo questa mattina. M. ha 52 anni ed [cut] abita in una città Adel centro Italia , è un [cut]. E' sposato ed ha due figli.
Questo il suo racconto. Il 12.03.14, alle ore 21.30, percorreva con
la sua vettura, una Smart con cambio automatico, la strada che dalla località B (dove aveva accompagnato la moglie) porta alla località C.
Aveva da poco superato il paese A e stava percorrendo un tratto di via buio e con poche abitazioni. Ad un certo punto “sente” o meglio, “crede di sentire” una voce che gli ripete più volte la frase “vai piano”. La voce ha un timbro “femminile” e gli sembra “non naturale” (altre volte la definisce “artificiale, quasi metallica”). Istintivamente spegne l'autoradio pensando ad una trasmissione radiofonica o ad una interferenza (è solo in auto ed ha i finestrini chiusi). Dopo circa 500 metri vede una “figura” al centro della carreggiata. Rallenta e frena. Ha così modo di osservare, dal finestrino lato guida, un “essere” dalle fattezze “umanoidi”: è alto circa 140 cm, stima fatta avendo come riferimento l'altezza della sua autovettura.
Ha una testa enorme, sproporzionata rispetto al resto del corpo, con due occhi grandi, “senza pupille” e di colore “azzurro-acqua”. Non nota un “naso vero e proprio” bensì due “fori” al suo posto. E non ha una “bocca”, o meglio, non riesce a distinguerla. Lo colpisce il fatto che il corpo sembra da “invertebrato”, cioè ha le spalle “molto strette” con assoluta mancanza di articolazioni tra spalla e braccio e tra braccio e gomito. La porzione di arti superiori che riesce a vedere è comunque sottile. Non riesce a distinguere le mani e gli arti inferiori. Il corpo ha un colore chiaro, che comunque definisce “sul grigio” e non sa distinguere se si tratti di “pelle” o di un indumento attillato tipo una “tuta sportiva come quella degli sciatori”. L'essere lo guarda ed emette un suono acuto tipo “uno strillo come quello delle donne quando hanno paura”. Poi, come se fosse spaventato dalle luci di alcune auto che scendevano in senso opposto (la strada in quel tratto è in salita) scappa velocemente imboccando una stradina, anch'essa in salita, sulla destra della carreggiata, che termina in un bosco.
Aveva da poco superato il paese A e stava percorrendo un tratto di via buio e con poche abitazioni. Ad un certo punto “sente” o meglio, “crede di sentire” una voce che gli ripete più volte la frase “vai piano”. La voce ha un timbro “femminile” e gli sembra “non naturale” (altre volte la definisce “artificiale, quasi metallica”). Istintivamente spegne l'autoradio pensando ad una trasmissione radiofonica o ad una interferenza (è solo in auto ed ha i finestrini chiusi). Dopo circa 500 metri vede una “figura” al centro della carreggiata. Rallenta e frena. Ha così modo di osservare, dal finestrino lato guida, un “essere” dalle fattezze “umanoidi”: è alto circa 140 cm, stima fatta avendo come riferimento l'altezza della sua autovettura.
Ha una testa enorme, sproporzionata rispetto al resto del corpo, con due occhi grandi, “senza pupille” e di colore “azzurro-acqua”. Non nota un “naso vero e proprio” bensì due “fori” al suo posto. E non ha una “bocca”, o meglio, non riesce a distinguerla. Lo colpisce il fatto che il corpo sembra da “invertebrato”, cioè ha le spalle “molto strette” con assoluta mancanza di articolazioni tra spalla e braccio e tra braccio e gomito. La porzione di arti superiori che riesce a vedere è comunque sottile. Non riesce a distinguere le mani e gli arti inferiori. Il corpo ha un colore chiaro, che comunque definisce “sul grigio” e non sa distinguere se si tratti di “pelle” o di un indumento attillato tipo una “tuta sportiva come quella degli sciatori”. L'essere lo guarda ed emette un suono acuto tipo “uno strillo come quello delle donne quando hanno paura”. Poi, come se fosse spaventato dalle luci di alcune auto che scendevano in senso opposto (la strada in quel tratto è in salita) scappa velocemente imboccando una stradina, anch'essa in salita, sulla destra della carreggiata, che termina in un bosco.
X. ha paura, ed il primo istinto è quello di allontanarsi
velocemente dal luogo. Ma l'auto si spegne o è spenta. Questo
particolare lo allarma molto: le auto con il cambio automatico
rallentano e scalano le marce automaticamente adattando la velocità
al percorso (la strada in quel tratto era in salita) e quando si
frena il motore resta acceso. Riavvia l'auto e “scappa”. Dopo
qualche chilometro e dopo aver riacquistato serenità e il controllo
della situazione, ripensando all'accaduto decide di voltarsi indietro
e tornare sul luogo. Lo riconosce, accosta, identifica la stradina
imboccata dall' “essere”, non nota niente di strano ma non se la
sente di scendere dall'auto, per cui riprende la via verso Viterbo.
Rientrato a casa, adesso più incuriosito dall'esperienza che
spaventato, decide di contattare qualcuno per cercare di avere un
parere su quanto gli è accaduto. Fa una ricerca in rete e decide di
contattare il CISU di Viterbo perché vuole incontrare di persona chi
è disposto ad ascoltare la sua esperienza.
X. appare una persona equilibrata, il suo eloquio è sicuro, fluido e
ricostruisce i fatti con accuratezza e senza particolare
partecipazione emotiva. Mi ha colpito il modo, oserei dire
“impeccabile” con il quale ha affrontato le spiegazioni
“razionali” possibili. Per prima cosa si è chiesto se poteva
aver avuto una allucinazione, sia uditiva che visiva. Mi ha fatto
molte domande in merito (e credo di avergli risposto in modo
esaustivo). Poi ha ipotizzato che il volto visto potesse essere il
riflesso del suo viso sul vetro del finestrino. Ha anche pensato ad
uno scherzo, anche se il presunto autore “doveva essere per forza
un ragazzino”, viste le dimensioni dell' “essere”. E' arrivato
pure a pensare che qualcuno, sempre per scherzo, gli abbia
“proiettato” l'immagine dell'entità con qualche strumento
ottico. Ha pure preso in considerazione il suo stato psico-fisico.
Non è un bevitore abituale (poco vino ai pasti e niente
superalcolici). Non usa sostanze stupefacenti (tra l'altro i militari
con obbligo di volo svolgono periodicamente test anti-droga). Non
assume farmaci (gli unici che ha preso, quaranta giorni fa, degli
antidolorifici prima di un intervento in artroscopia a un ginocchio.
In quell'occasione ha subito un'anestesia locale). Al momento
dell'avvistamento della creatura non era né stanco né assonnato.
Non era stressato e guidava con attenzione. C'è poi la percezione
uditiva della voce “femminile”. A questo proposito ha anche
valutato un'ipotesi “paranormale”. Ricorda di aver letto di
persone che sono state avvisate di un pericolo imminente da “voci”
di familiari defunti o di entità angeliche. Ma nel suo caso ammette
che la voce da lui udita, pur avendo un timbro femminile, non gli era
assolutamente familiare (sua madre è deceduta quando lui era molto
piccolo), e aveva poi quella componente “metallica” o
“artificiale” come l'ha lui stesso definita. Più ci pensa e più
è convinto che non l'abbia udita “con le orecchie”, ma che sia
“manifestata” nel suo cervello quasi come se fosse stata una
“comunicazione telepatica”.
Per altro nella sua vita non ha mai avuto esperienze particolari, ed
è sempre stato molto scettico sia riguardo ai fenomeni paranormali
che a quelli ufologici. A questo proposito mi ha riferito di non aver
mai letto libri sull'argomento, solo articoli da riviste e giornali.
Mi ha anche detto che durante voli notturni, e sempre in presenza di
colleghi, ha avuto modo di avvistare luci anomale, ma è sempre
riuscito a dare una spiegazione logica, plausibile e non esotica. Non
è stato mai incline al soprannaturale, anche se riferisce una certa
empatia con un familiare (si telefonano nello stesso momento, altri
tipi di episodi sincronici). E' anche un astrofilo, possiede un
telescopio, fa delle osservazioni notturne del cielo e mai gli è
capitato di osservare “stranezze”.
Solo ad una mia domanda ha un po' titubato, quando gli ho chiesto
perché si è rivolto a degli ufologi: in fondo non è stato
avvistato alcun oggetto volante non identificato. Perché ha messo in
relazione l'avvistamento della creatura con i fenomeni ufologici? Mi
ha risposto che gli sembrava la cosa più logica e forse gli ufologi
gli sono parsi gli unici in grado di dargli ascolto e forse una
spiegazione.
Di fronte a questa “narrazione” si possono fare tante ipotesi ed
illazioni. Domande se le è poste lo stesso testimone ma di fatto è
difficile risalire a quel “quid” che ha generato
quest’esperienza, questo vissuto raccolto “a caldo”.
L’ALIBI DELLA “QUIDDITAS”
Marco Mucci, anche lui (ex) ufologo compagno di viaggio, nel leggere
le mie precedenti considerazioni sulla necessità della “capacità
negativa” e della conseguente “accettazione del vuoto”, mi
faceva notare che nell’insieme si tratta di riflessioni
interessanti ma nel contempo “pelose” poiché indigeste al nostro
usuale modo di pensare. E’ vero che nella storia della filosofia
occidentale, e quindi in tutta la nostra storia, non si sono mai
messe in discussione (se non a partire dal pensiero Kantiano) la
necessità e la fiducia di scoprire le cause prime dei fenomeni, la
quidditas che soggiace a tutto ciò che ci circonda. Ovvero la
sostanza ultima di aristotelica memoria (“quod quid erat esse”,
ciò che è l’essere). Come è altrettanto un dato evidente a noi
uomini (post) moderni e secolarizzati che l’agognata quidditas
(in italiano quiddità) o non esiste (ma qui si tratta di superbia
intellettuale) o non è raggiungibile per definizione. Il
raggiungerla sarebbe una contraddizione “in termini” per il
pensiero umano. La verità assoluta non è raggiungibile, esistono
solo verità relative prospettiche di ciascuno per cui si scorgono
dettagli diversi dell’”oggetto” osservato: il che non vuole
dire che esista l’oggetto e che questo abbia sue proprie
caratteristiche morfologiche.
Marco mi fa di conseguenza rilevare che partendo da ciò ha da tempo
lasciato (di qui il suo abbandono dalla ricerca attiva) ogni speranza
che si possa un giorno conoscere la quidditas (se mai ce n’è
una, diversa dalla cronaca raccontata dai testimoni e dagli ufologi)
che genera il fenomeno UFO e che tantomeno possa farci progredire
l’accumulo e lo studio dei dati statistici. La non accettazione del
“vuoto” e dell’”insaturo”.
Nel contempo, però, Marco è comunque tutt’ora interessato da
quella che definisce componente irrazionale – a suo parere tutta
umana, ci tiene a specificarlo – del fenomeno, la “fringe
ufology” della prima ora (quella “genuina” non la paccottiglia
di oggi che ha lo scopo di raggiare alcuni sprovveduti). E dove trova
rileva parallelismi (stando attento a non scadere nei paralogismi)
con tutta la storia religiosa ed esoterica dell’occidente. Il suo
è, in questo, un approccio “fenomenologico” (Van Gennep) nel
senso che il perimetro del suo interesse è limitato a ciò che è in
superficie, al fainomenon (ciò che appare) e quindi al
racconto dei testimoni e degli ufologi in se stessi. E’ un po’ la
posizione che si ritrova in David Halperin, professore di storia
ebraica all’Università del North Carolina nel suo romanzo in
parte autobiografico “La voce smarrita del cielo” (Salani, 2011).
David Brin nel racconto “Cosa dire a un UFO” (in “Urania”,
“Altrove: contatti nel cosmo”, n. 1269, Mondadori, 29 ottobre
1995, pp. 100-103) asserisce che il “culto degli UFO” è un
esempio lampante di “pensiero magico”, “in cui ciò che è vero
è molto meno importante di ciò che dovrebbe essere”.
A suo avviso “non si può provare un’affermazione negativa. In
altre parole , mentre i sostenitori degli UFO non sono mai riusciti
a dimostrare un singolo caso di presunti incontri con alieni,
basterebbe una sola eccezione per rendere dubbi tutti i casi non
provati. I critici non riusciranno mai a eliminare la speranza
dell’entusiasmo che la prossima volta tutto diventerà
chiaro. Nessuna serie di esperimenti può dimostrare in maniera
conclusiva che visitatori extraterrestri non hanno mai visitato o non
visiteranno la Terra”. Lo stesso si potrebbe dire per gli “altrove”
delle cosiddette teorie parafisiche. Il problema è un altro: che
questi sono spesso punti di partenza e non di arrivo, con tutto
quello che e consegue. In primis il ritenere tali posizioni
non ipotesi ma credenze. Un atto di fede. Un limite alla sospensione
del giudizio. La morte della “capacità negativa” e della
conseguente accettazione del “vuoto” e dell’”insaturo”.
Ecco perché occorre essere intellettualmente audaci pur
nell’accettazione dei limiti del comprensibile e spiegabile in modo
da essere nel contempo pronti ad accogliere qualsiasi “novità”.
Il che è capacità ancora di stupirsi e amore per il meraviglioso
nelle sue innumerevoli possibilità. Senza con questo possedere la
passione “magica” che i misteri rimangano misteri. Convinti come
siamo che siano piuttosto degli enigmi da risolvere pur nella
sospensione del giudizio e del pre-giudizio.
Mi sovviene alla mente la mistica ebraica medievale, la Kabbala, che
riesce a riunire in sé gli opposti: “Nel palazzo del nulla risiede
il tutto”.
Paolo Fiorino- Torino, 1-3 maggio 2014
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