Esiste nella scienza la stessa "querelle delle immagini" presente nella teologia.
Articolo tratto dalla rivista "La recherche" n°. 295 , 02/11/97, di Bruno Latour (sociologo Ecole de Mines, Paris)
Articolo tratto dalla rivista "La recherche" n°. 295 , 02/11/97, di Bruno Latour (sociologo Ecole de Mines, Paris)
Spesso si oppone la ricerca religiosa dell'invisibile a quella scientifica del visibile. Come si può constatare leggendo qualsiasi articolo tecnico di questa rivista, le cose, in realtà, devono essere un po' più complicate. In effetti non si vedono mai direttamente dei virus o delle galassie, ma sempre indirettamente (1).
Una sola immagine della galassia non è mai sufficiente a modificare le convinzioni dell'astronomo. Ne sono necessarie diverse, corrispondenti a delle lunghezze d'onda, a dei codici, a diversi trattamenti delle immagini. Il fenomeno risiede molto meno nell'immagine in se stessa e molto di più nella sovrapposizione di una moltitudine di immagini distinte. Cosa vede l'astronomo di conseguenza? Su una sola immagine proprio niente. Ciò che vede è ciò che resta stabile da una traccia all'altra, ciò che egli suppone costante attraverso le trasformazioni dei grafici, delle tavole, delle fotografie, dei resoconti, dei calcoli. Quello che vede resta dunque letteralmente invisibile. La galassia non è come la perla di una collana, ma piuttosto il filo invisibile che tiene insieme tutte le perle (2).
Un divertente contro-esempio di questa teoria ci è offerto dall'ossessione degli "ufologi" per la traccia definitiva, per la perla rara, che deve provare indiscutibilmente, secondo loro, la presenza di dischi volanti o mostri extraterrestri. Essi trovano sempre il modo di impressionare la pellicola fotografica con macchie, bande, aloni e ombre inspiegabili. Superficialmente, le tracce che ottengono a malapena possono assomigliare, in effetti, a quelle sulle quali la scienza detta ufficiale fonda le sue convinzioni (3).
Ma gli ufologi caricano una traccia isolata di tutto il peso dell' evidenza. Sta lì tutta la differenza. Mai gli astronomi farebbero lo stesso. Una traccia isolata non è per loro una referenza. Comincia ad esserlo allorquando un fenomeno può essere definito come una costante mantenuta attraverso una serie infinita di deformazioni. Laddove l'ufologo crede di trovare l'uccello raro, la prova miracolosa, il nascosto divenuto visibile, l'astronomo un po' più finemente, insegue una forma molto particolare d'invisibile: ciò che gli permette di dare senso ad una gruppo di evidenze. Il primo, l'ufologo, crede di dover vedere; il secondo, l'astronomo, sa che non vedrà.
Gli ufologi sono sempre indignati nei confronti della "scienza ufficiale" che non riconosce i loro "dati" ed immaginano che si "complotti contro di loro" per "dissimulare le prove (4)". La verità è meno esotica. Gli ufologi dimenticano che gli scienziati hanno un rapporto molto più sottile con l'invisibile di quello che lasciano credere i loro manuali ed i loro rapporti. Certo talvolta capita ad un ricercatore, allorquando si rivolge al grande pubblico, di prelevare una delle proprie tracce, di metterla in valore, di mostrarla e di dire "Ecco qui una galassia !", come se in effetti questa immagine isolata fosse proprio il fenomeno che si voleva trovare. Ma questa facilità di linguaggio non serve che alla pedagogia.
Quando si tratta di dover convincere i suoi pari, non si può dare una perla al posto della collana. E' tutta una serie di trasformazioni che i colleghi vogliono verificare una ad una. Da ciò la confusione di registri: quando infine porta una traccia visibile di ciò di cui parla, crede di provare alla maniera di una vera scienza, mentre non fa che imitare il pedagogo che isola una traccia per farne il rappresentante unico di tutto ciò che essa rappresenta... Nel momento stesso che brandisce l'evidenza, è là che l'ufologo è meno scientifico.
Se questa teoria è esatta, si obietterà, perché allora aver associato la scienza col visibile e l'immediatezza invece di insistere sulla sua ricerca così particolare dell'invisibile e della mediazione ? La prima ragione è legata probabilmente alla storia dell'arte. In effetti, da dove ci perviene questa idea curiosa secondo la quale ci sarebbe da un lato un modello e dall'altro una sola immagine di questo modello? Da una forma molto particolare di pittura, molto probabilmente dalla pittura olandese. E' in quel momento in effetti che si è formata una certa idea della descrizione, dove possiamo trovare la fonte di numerose metafore sulla "corrispondenza" tra la "rappresentazione" del quadro e la "realtà" (5). Peraltro, tra una serie di perle ed il filo che le trattiene, il rapporto non è tuttavia lo stesso che tra il quadro ed il suo modello. La metafora della pittura accentua l'importanza della corrispondenza in senso stretto tra il modello e la sua copia, e rende invisibile quella forma così particolare di visualizzazione e di modellizzazione propria delle scienze esatte. Le scienze non copiano il mondo.
Ma è probabilmente dalla querelle antireligiosa, così importante per la formazione delle scienze, che previene questa difficoltà nel rappresentare il lavoro dell'immagine sapiente. In un libro illuminante sulla teologia bizantina, Marie-José Mondzain ci ricorda che la parola "economia" definisce sia un modo di governare, una forma d'interpretazione delle immagini religiose e, infine, una teoria molto sofisticata di rapporto tra visibile e invisibile (6).
Ci manca, non ne dubitiamo, una economia delle immagini scientifiche che sia di una sottigliezza tanto bizantina! Gli iconoclasti, in effetti, esistono nella scienza come nella religione. Vogliono privarsi del soccorso della mediazione materiale dell'immagine e passare direttamente, spiritualmente, miracolosamente verso il modello indicibile che solo deve ispirarli. Mentre, gli iconofili, nella scienza come nella religione, insistono su tutt'altra via che li obbliga a prendere molto seriamente il semplice fatto che non si possano vedere direttamente le cose di cui si parla. Invece di opporre invano l'invisibile al visibile, sarebbe meglio se si raccogliessero le forze di queste due grandi pratiche dell'immagine che furono la religione cristiana e le scienze. L'opposizione classica tra razionale e irrazionale parrebbe molto meno pertinente che quella tra iconoclasti e iconofili. Ma come fare per essere al contempo iconofili nella scienza e nella religione?
Note
1) D'altronde si tratta di una proprietà generale delle immagini da cui traiamo raramente le conseguenze per le scienze, vedi Regis Debray, Cours de mediologie generale, Gallimard, Paris, 1991.
2) Vedi il numero 22 della ex rivista Culture Technique diretta da Jocelyn de Noblet (1991) ed il numero speciale di Science et Avenir n°104, dicembre 1995, sull' imaginerie scientifica. Vedi infine il classico e sempre assai completo lavoro di Jan Hacking, "Concevoir et experimenter. Themes introductifs a la philosophie des sciences experimentales", Christian Bourgois, Paris, 1989 [traduzione italiana dall'originale statunitense: "Conoscere e sperimentare", Laterza, Roma, 1987, NdT].
3) Vedi il numero coordinato da Pierre Lagrange ed in particolare il suo articolo "Les extraterrestres revent-ils de preuves scientifiques?", Ethnologie francaise, vol. XXIII. n° 3, 428, 1993.
4) Vedi il curioso libro che lo stesso Pierre Lagrange ha consacrato a "La rumeur de Roswell", la Decouverte, Paris, 1966. Solamente un complotto di proporzioni mirabolanti possono spiegare come prove così probanti possano essere state dissimulate agli occhi del pubblico. Evidentemente non rimane che provare il complotto! Ma ecco che le evidenze nuovamente divengono incredibilmente tenui, comportando una interminabile inchiesta del sociologo sulle cause dell'invisibilità del complotto...
5) Svetlana Alpers, "L'art de depeindre. La painture hollandaise au XVIIe siecle", Gallimard, Paris, 1990 [traduzione italiana dall'originale statunitense: Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese, Boringhieri, Torino, 1984/1999 NdT]. 6) Marie-José Mondzain, "Image, icone, economie. Les sources byzanthines de l'imaginaire contemporain", Le Seuil, Paris, 1996.
Traduzione N. Conti, e collaborazione R. Labanti. Pubblicato su internet la prima volta il 16 giugno 2003
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